RASSEGNA STAMPA


7 OTTOBRE 2001

 

ARMANDO MASSARENTI

Misure della libertà

A Palermo un confronto tra economisti e filosofi organizzato dalla London School

Forse non è un caso che il presidente Bush, dopo aver lanciato l'infelice slogan «giustizia infinita», abbia subito ribattezzato l'operazione antiterroristica «libertà duratura». Il cambiamento semantico non è di poco conto. "Giustizia" rimanda direttamente a "vendetta", cioè a un istinto dal quale - come suggeriva Roberto Casati sul domenicale della settimana scorsa - ogni spirito democratico dovrebbe difendersi. L'idea di una "libertà duratura" ci riporta invece ai presupposti teorici ed empirici di una visione liberaldemocratica, alle condizioni complessive che, nella vita di ogni giorno, ci rendono più o meno liberi. Se è vero che l'attacco sferrato alle torri gemelle ha spinto l'opinione pubblica dei paesi democratici a ripensare in maniera più consapevole ai valori di fondo che informano la convivenza civile, è ancor più vero che, tra quell'insieme di valori, la libertà ha riacquistato l'importanza centrale che le compete. Tornano così alla mente una serie di domande che appassionano i filosofi della politica, consapevoli della rilevanza pratica che le diverse risposte comportano. Quale libertà? La libertà negativa, o libertà da, propria del mercato; o la libertà positiva, o libertà di, che riguarda invece la questione su chi comanda, seguendo la classica distinzione di Berlin? O il terzo concetto di libertà, elaborato da Philip Pettit in riferimento alla tradizione repubblicana? Quali sono i vincoli ragionevoli alla mia libertà? In che modo la libertà si armonizza o confligge con altri valori - eguaglianza, sicurezza, ordine, stabilità? Domande classiche alle quali, negli ultimi anni, se ne è aggiunta una a lungo trascurata che oggi forse ci appare la più attuale: quanta libertà? La quale presuppone l'interrogativo più generale: la libertà è misurabile? Porsi queste ultime domande ha naturalmente ripercussioni anche sulle precedenti, come si è visto a un importante convegno tenutosi a Palermo dal 27 al 29 settembre su Analisi e misura della libertà: prospettive teoriche, empiriche e istituzionali, nato da una collaborazione tra Università di Palermo e London School of Economics e organizzato da Sebastiano Bavetta. Sulla misura della libertà, nel corso degli anni 90, filosofi ed economisti hanno lavorato in parallelo, interagendo assai di rado. Le intersezioni più interessanti sono quelle dovute agli sviluppi dell'Economia del benessere e della teoria della scelta sociale, e hanno avuto come protagonista il Nobel per l'economia Amartya K. Sen. Sen ha sostenuto la necessità di valutare le opportunità e le scelte non solo nei termini delle loro utilità ma anche nei termini della quantità di libertà che esse producono. È grazie a Sen che anche tra gli economisti si è cominciato a pensare alla libertà come a un valore intrinseco, da misurare indipendentemente dall'utilità. Tuttavia un vero dialogo tra filosofi ed economisti non si era mai sviluppato. Il convegno palermitano è stata la prima vera occasione di incontro tra queste due comunità di studiosi e tra gli approcci diversi di ognuna di esse. I protagonisti di tale dibattito erano presenti. Tra i filosofi vanno ricordati Hillel Steiner e Ian Carter (autore di A measure of Freedom, recensito sul «Sole-24 Ore» del 26 settembre 1999), oltre allo stesso Pettit. Tra gli economisti, P. Pattanaik e Y. Xu purtroppo non erano presenti, ma hanno mandato un intervento che è stato molto discusso. Nel '90 essi pubblicarono un saggio, ormai classico, in cui proponevano una assiomatizzazione della metrica delle libertà. Dato il carattere puramente formale del loro modello, la conclusione che ne derivava era che, in determinate situazioni, più sono le opzioni a disposizione dei soggetti più questi sono liberi. Ma nell'intervento mandato al convegno proprio loro hanno sostenuto che questo tipo di misurazione non cattura la diversità tra le diverse opzioni. Immaginiamo due situazioni diverse. Nella prima posso scegliere tra viaggiare in aereo o in automobile. Nella seconda tra viaggiare su un'auto rossa o su un'auto grigia. Le opzioni sono sempre due, ma è evidente - dal punto di vista intuitivo - che nella prima situazione sono più libero. Dunque, nel modello teorico, c'è qualcosa che non va. La metrica è puramente neutra e non riesce a catturare la differenza tra opzioni banali e opzioni significative. Dunque Pattanaik e Xu, e insieme a loro gli economisti presenti al convegno, si sono chiesti se non fosse il caso di abbandonare o modificare gli assiomi in maniera da tener conto delle differenze tra i tipi di opzioni, oppure delle differenze tra agenti. R. Sugden (e con lui Bavetta e Guala) è andato più in là, introducendo il valore dell'eccentricità, riavvicinandosi così al motivo per cui Carter ha reintrodotto, da filosofo, la questione della misura della libertà. Già Sen aveva sostenuto che bisogna ponderare le opzioni tenendo conto delle preferenze delle persone delle quali stiamo misurando il grado di libertà. Supponiamo di trovarci in una delle Twin Towers al momento dell'attacco e di trovarci di fronte a queste due opzioni: «bruciare nella torre» oppure «camminare tra le macerie delle torri». Come facciamo a dire che queste opzioni non aumentano la libertà? Queste opzioni, infatti, non erano disponibili prima dell'attacco. Sono state create dall'attacco. Quindi, direbbe Sen, come si può dire che l'attacco ha diminuito la libertà complessiva di chi stava nelle torri e nei dintorni? Il modello assiomatico non permette di dirlo. Riusciamo a dirlo solo se - questa la soluzione del paradosso -, nei giudizi di libertà, introduciamo informazioni riguardo alle preferenze degli agenti. Sugden aggiunge che non dobbiamo solo guardare alle preferenze reali, ma anche a quelle potenziali. Ma ne dà una definizione piuttosto restrittiva, basata sull'appartenenza a certi gruppi o classi sociali. Sono preferenze potenziali quelle preferenze espresse da almeno un membro del gruppo o della classe cui appartengo. Ma, secondo Ian Carter, in questo modo Sugden fa una scelta ancora troppo conformistica. Il motivo per cui noi diamo valore indipendente, o intrinseco, alla libertà, sostiene Carter è quello di John Stuart Mill, secondo il quale è importante la libertà di fare esperimenti di vita. La libertà serve per il progresso, per scoprire cose che non conosciamo, per creare nuovi modi di vivere, nuovi valori e quindi nuove preferenze. Io devo poter preferire cose che io stesso ho inventato, indipendentemente dalle preferenze delle persone che appartengono alla mia stessa categoria sociale. Sugden in realtà immagina anche questa obiezione, e finisce per abbracciare una posizione scettica: forse sarebbe il caso di abbandonare, da un punto di vista liberale, l'idea stessa di misurare la libertà. Carter ritiene invece sia possibile non solo mantenere l'intuizione di Mill, ma anche misurare la libertà complessiva di un agente introducendo un elemento probabilistico. La libertà complessiva di un agente dipenderebbe dunque dalla somma delle sue opzioni moltiplicate in ciascun caso per la probabilità della presenza di tali opzioni. I gradi di libertà complessiva andrebbero calcolati non solo guardando al numero di libertà e non-libertà specifiche di cui si dispone, ma anche tenendo in conto delle loro probabilità. Così, riprendendo il nostro esempio à la Sen, diventa ben difficile dire che l'attacco possa avere aumentato la libertà complessiva del cittadino medio occidentale. L'ha diminuita, ovviamente, come tutti avevamo intuito, perché pensiamo che sarà assai probabile che dovremo sottostare a una serie di nuovi vincoli, imposti da altri eventuali attacchi, la cui probabilità può aumentare anche a causa della guerra contro il terrorismo, e soprattutto di vincoli che comportano perdite di libertà civili e di capacità di movimento.

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vedi anche
Filosofia (e) politica