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Noi
globali, disuguali e meno liberi
Per
Amartya Sen, la distribuzione della ricchezza è sempre più un problema politico
L'economista e filosofo indiano nel suo ultimo libro elabora un manifesto per tutta la sinistra
L'1%
della popolazione mondiale (i 60 milioni di persona più ricche) ha un reddito
pari a quello posseduto dal 57% della popolazione del pianeta (i 3,4 miliardi
di persone più povere). Le 200 persone
più ricche della Terra dispongono di più risorse dei 2 miliardi di persone più
povere. Nel mondo 800 milioni di
persone patiscono la fame, mentre altri 800 milioni hanno, all'opposto,
problemi per l'eccesso di cibo che consumano.
Il bilancio annuale di una singola grande azienda americana come la
General Motors (164 miliardi di dollari) supera di circa il 25% quello del più
ricco paese dell'Africa sub-sahariana, il Sud Africa (129 miliardi di
dollari). In una grande azienda
dell'Occidente lo stipendio dell'amministratore delegato spesso supera quello
di 150 suoi operai generici. Di più. Il primo tende a salire, mentre i salari
operai tendono a calare. Mai, nella storia dell'uomo, la ricchezza era stata
redistribuita in maniera così ineguale tra le nazioni e all'interno delle
nazioni. Non c'è dubbio: le diseguaglianze, sostiene l'economista francese
Daniel Cohen,
sono il fenomeno sociale che caratterizza gli anni della transizione dal XX al
XXI secolo, gli anni della globalizzazione.
Ma
il problema della distribuzione della ricchezza non è solo un fenomeno («il»
fenomeno) sociale. Sta diventando,
finalmente, un problema («il» problema) politico. Le disuguaglianze, sostiene l'indiano Amartya Sen, sono ormai il
tema centrale del dibattito sulla globalizzazione e la fonte principale dei
dubbi su quell'ordine economico planetario che produce, nel medesimo tempo:
«una miseria degradante e una prosperità senza precedenti».
«Benché
incomparabilmente più ricco di quanto sia mai stato prima, il nostro è un mondo
di tremende privazioni e di
disuguaglianza sconvolgenti», osserva Amartya Sen, economista da premio Nobel e
filosofo acuto, direttore del Trinity College di Cambridge, in Inghilterra, e
autore di un libro, Globalizzazione e
libertà, appena uscito in italiano per i tipi della Mondadori. Ed è a
queste scacciate diversità, a questo «contrasto sostanziale» che dobbiamo
guardare se vogliamo capire gli umori di un mondo sempre più instabile e
scontento. Se vogliamo interpretare il
sempre più diffuso «scetticismo sull'ordine globale» e «persino la tolleranza
dell'opinione pubblica nei confronti delle proteste cosiddette
anti-globalizzazione, nonostante siano spesso furiose, esagitate e, talvolta,
anche violente». Il problema delle
«sconvolgenti disuguaglianze» che caratterizzano la dinamica sociale e l'agenda
politica nell'era della globalizzazione è, dunque, così immanente da
costringere persino un liberale autentico, come Amartya Sen, a ridisegnare la
griglia critica con cui interpreta il mondo.
E l'urgenza, improvvisa eppure inderogabile, di questa ristrutturazione
analitica è evidente, persino palpabile, nel modo stesso con cui l'economista
indiano; ha costruito il suo nuovo libro.
Il volume è una raccolta di saggi e interventi sulla globalizzazione che
Amartya Sen ha scritto e tenuto in giro per il mondo tra il 1995 e il 2001. Si
tratta di uno sviluppo organico del suo pensiero che possiamo riassumere in
poche tappe. Prima della transizione di
fase.
Quello
che chiamiamo globalizzazione, scrive e dice Amartya Sen tra il 1995 e il 2001,
è un fenomeno forse non del tutto nuovo, ma reale. E' costituito da un
incremento, notevole, degli scambi commerciali tra le nazioni del mondo. Ma anche dagli scambi culturali. E, in ogni caso, dall'amplificazione dei
contatti economici e culturali che deriva dall'imponente aumento del flusso di
informazioni. Viviamo nel villaggio
globale anche e forse soprattutto perché la comunicazione di massa ha ridotto
il mondo, appunto, alle dimensioni apparenti di un villaggio.
Tuttavia
quello globale non è un villaggio apparente. I suoi cittadini hanno problemi in
comune: i problemi globali. Che sono,
in primo luogo, quelli di natura ambientale: dal cambiamento del clima
all'incremento demografico, dall'erosione della biodiversità alla distribuzione
delle risorse alimentari.
Per
tutti questi motivi la globalizzazione non è un fenomeno folle o (solo)
negativo. Ma un fenomeno razionale
molto complesso, con una molteplicità di aspetti. Alcuni positivi, altri negativi.
In ogni caso è un processo pressoché irreversibile. D'altra parte la stessa protesta
anti-globalizzazione è un fenomeno globale, un aspetto (razionale) della
globalizzazione.
Gli
scambi commerciali e culturali, la presenza di problemi comuni riconosciuti,
crea problemi di gestione politica. Di
governo o, quanto meno, di «governance», come si dice adesso. Il governo mondiale non è possibile e forse
neppure auspicabile, sostiene Amartya Sen. Occorre una più morbida «governance»
della globalizzazione, intesa come un processo di «costruzione globale» che
passi attraverso la riforma delle politiche e delle istituzioni internazionali.
La
globalizzazione in tutti i suoi aspetti (economici, culturali, politici,
istituzionali), è e deve essere considerata un'opportunità di sviluppo. Amartya Sen è uno dei padri del concetto di
sviluppo umano e degli indicatori che lo misurano. Quando parla di sviluppo non intende solo lo sviluppo
economico. Ma intende anche uno
sviluppo dei diritti e delle opportunità dell'uomo. Così che, non solo il Pil (prodotto interno lordo) ma anche il
tasso di alfabetizzazione, il sistema sanitario, il diritto del lavoro,
l'assenza di discriminazione basate sulla razza, sul sesso, sulla religione,
sono indici di sviluppo umano. Lo
sviluppo umano, inteso come l'insieme di tutti questi indicatori, è un processo
di sviluppo della libertà dell'uomo.
Dove la libertà, grande valore globale, non è solo un fine, ma è anche
un mezzo. La libertà è, insieme,
espressione e catalizzatore dello sviluppo umano. «Non conosco alcun paese
libero dove nel XX secolo si sia verificata una carestia. Tutte le carestie si sono verificate nei
paesi governati da dittature», sostiene Amartya Sen.
Naturalmente
l'economista indiano quando parla di libertà non intende solo quella (sempre
necessaria) di parola e di stampa. Per
libertà intende anche la libertà dai bisogni primari. E così chiude, il 25 febbraio del 2000, un memorandum richiesto
dal Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, che è una sorta di manifesto
della sinistra liberale e che Sen ha inserito non a caso come ultimo capitolo
nel libro Globalizzazione e libertà:
«Il nostro futuro dipenderà soprattutto dal successo nell'ampliamento delle
libertà».
Tuttavia
tra quella data e la pubblicazione del libro avviene come una transizione di
fase. Amartya Sen modifica la griglia
critica con cui da diversi lustri interpreta il mondo. Prende atto che negli ultimi decenni le
condizioni di vita dei poveri della Terra non sono in media peggiorate (tranne
quelle dei poveri che vivono nell'Africa sub-sahariana), anche se, pur in presenza
di un diffuso ampliamento delle libertà, non sono granché migliorate. Mentre sono migliorate enormemente le
condizioni di vita dei ricchi della Terra, ormai sfacciatamente ostentate dai e
sui media in ogni più remoto anfratto nel pianeta. Amartya Sen si accorge che queste disuguaglianza, così cresciute
e ostentate da risultare «sconvolgenti», sono diventate il fattore di
«contrasto sostanziale» nel villaggio globale: tra i suoi quartieri e dentro i
suoi quartieri. Si accorge che queste disuguaglianze non comprendono solo le
differenze di ricchezza, ma anche «le macroscopiche asimmetrie nel potere
politico, sociale ed economico». Ne
conclude che «la divisione, tra paesi ricchi e paesi poveri o tra differenti
gruppi in un paese, dei guadagni potenziali generati dalla globalizzazione» è
diventata questione cruciale.
E allora modifica la struttura del suo libro e, probabilmente, del suo pensiero. Elabora un nuovo saggio e lo pone in apertura del volume, a mo' di manifesto. Un manifesto per tutta la sinistra. E in questo saggio, ultimo in ordine di tempo, ma primo in ordine di importanza, il pensatore liberale sostiene che le disuguaglianza ormai «sconvolgenti» sono diventate il tema centrale nell'interpretazione della società globalizzata. E che la ricerca di una più equa distribuzione delle risorse, tra i paesi e nei paesi, è diventata la priorità, sociale e politica, per l'ampliamento delle libertà e per lo sviluppo umano.